[ovvero come la scuola non è solo luogo di amabili risate fra amici]
Ora c’è la solitudine recentissima della scuola a distanza, apparentemente imbottita di agi e di vantaggi ma che nasconde il vuoto sotto i piedi e il silenzio nelle teste.
Eppure non è la prima, né la sola. Di solitudini a scuola ce ne sono mille: basta affinare lo sguardo e l’orecchio…ed eccole lì. Osservi, ascolti e capisci subito che questa è solo l’ultima, sì.
C’è quella triste ed educata della ragazza col cappuccio come elmo e la cartellina come scudo, che ogni mattina scende dall’autobus col sonno di una qualsiasi sedicenne ma i pensieri quelli no, occupati già dalle faccende da fare o dai pranzi da preparare, al ritorno, come al solito, ai fratelli.
C’è quella un po’ spavalda di un paio di ragazzini cinesi che cercano invano qualcuno di uguale per chiudersi in un cerchio ristretto, con la speranza ogni giorno di ridurre il mondo allo spazio del banco col muro e ogni giorno di nuovo costretti ad alzarsi, allargare quel cerchio e parlare.
C’è quella sperduta della ragazzina al suo primo cellulare, che per la prima volta sente nelle mani e nella gola il peso di uno strumento tanto bello e tanto terribile, perché là dentro ci sono gli amici a cui parlare, ma lei è senza lettere e senza parole da poter inviare.
C’è quella dolorosa di tanti adulti a lavoro nelle classi, che non sanno come faranno a sopravvivere ad amori consumati, eppure li vedi discutere e spiegare; o che lottano per trattenere qualcosa che è già fuggito o per mantenere un equilibrio che si ostina a scappare, eppure li vedi intenti a plasmare e colorare.
C’è quella inquieta dei prof che ancora non sanno come hanno fatto a finirci, lì, su quelle scale e per quei corridoi, e vagano cercando dietro i giacchetti o sotto gli sgabelli i loro sogni, perché un giorno li hanno persi e ora non li trovan più.
C’è quella scostante dei prof che si arroccano in un’aula o fanno casa del solito angolo sicuro, che preferiscono insomma una strada chiusa ma tracciata senza impacci a un volo libero, di gruppo, aperto a terre e occhi nuovi da esplorare.
C’è quella troppo grande per un ragazzino al primo mondo, a cui in una mattina sola viene tirato via il suo fondamento, e resta con gli occhi azzurri, poche parole e nessuna lacrima a vivere in un mondo smisurato d’improvviso senza mamma.
C’è quella calcolata dei dati snocciolati alle assemblee, fra voci di giubilo e lamento, dove comunque il volume di giorni, mesi, ansie, rabbie, cuori e mani di interi anni scolastici acquista lo spessore di una riga di tabella, rifugio da ogni dubbio e perfetta illusione di una scuola fatta semplice.
C’è infine quella terribile e incombente dell’impotenza dell’agire, che intrappola melmosa i pensieri e le azioni a tanti prof quando appare, invalicabile, la muraglia della collaborazione fra enti, necessaria per migliorare il futuro di quei tanti ragazzi in bilico nella vita. A cui magari, è vero, nessuno si prende la responsabilità di dare la spinta finale per vederli cadere giù, ma nemmeno quella opposta, che spetterebbe loro, di avere una vita decente anche passati i diciotto anni.
Perché di solitudini a scuola ce ne sono mille, ma abbandonati nel mondo, una volta lontani da banchi e da prof, i nostri ragazzi saranno destinati a trovarne certamente di più.