In questi giorni ho imparato che:

– ormai l’alunno è quel minimo spazio che intercorre fra il ciuffo e la mascherina.
Il primo ad accorgersene è stato il nostro amico termoscanner; per lo meno da quando obbliga, all’ingresso, ogni giovanotto così seminascosto a mostrare almeno un pezzo del suo viso, alzando scocciato il Sacro Ciuffo;

– ogni ragazzo o ragazza che lascia la scuola è uno scandalo. Non in senso moralistico, ma etimologico: è lo scandalo proprio dell’inciampo, dell’ostacolo messo (e a volte subìto) a una vita più piena, a un futuro più vasto, a una società più democratica;

– nell’ambiguità di certe espressioni è contenuta tutta la faticosa sorpresa del passaggio al mondo adulto. Ne hai una prova, ad esempio, quando noti all’improvviso che, dopo anni e anni passati a “fare i compiti”, cioè a svolgerli, patendoli, adesso puoi finalmente “fare i compiti” cioè prepararli tu, agendoli. Che tu sia da una parte o dall’altra della cattedra, però, immutato resterà, in ogni caso, il timore che sentirai a riprendere quei fogli, una volta scritti, fra le mani;

– hai veramente capito un concetto quando riesci a rispondere a chi ti chiede ragione spiegandoglielo di nuovo, ogni volta, da un lato diverso, da una diversa prospettiva, cosicché l’altro, alla fine, possa guardarlo completamente, da tutti i lati, quasi come si contempla al meglio una statua girandoci intorno;

– se non fosse che a volte tutto ciò capita prima che inizi a spiegare, le corse in bagno dei miei allievi o le loro permanenze millenarie nel suddetto luogo di piacere mi farebbero proprio pensare che devono essere le mie lezioni a far … (completate voi);

– specialmente dopo aver sperimentato le conseguenze alienanti della Dad o le liti furiose e avvilenti dei collegi docenti, mi è apparso chiaramente quanto sia necessario che il “corpo docenti” un corpo lo diventi davvero, senza ridursi a essere una semplice, confusa, somma di arti.

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