“Vi do questa immagine, che è molto caratteristica della guerra in Yemen. Non vi dovete immaginare la scena hollywodiana di un paese completamente distrutto, no.
C’erano solo due strutture che erano distrutte, ad Aden (la capitale).
Solo due. L’ospedale e la scuola.”

Roberto Scaini, volontario da anni per Medici Senza Frontiere, queste cose le dice perché le sa bene, perché le affronta da anni cercando di ricucirle con gli occhi e le mani. E sa altrettanto bene che tutto questo non è certo un caso.

“Tutte le situazioni di pace, in fondo, si assomigliano”. Mi viene da pensare, ascoltando una sua intervista.
“Ogni guerra, invece, è terribile a modo suo.”

C’è una cosa, però, che pur manifestandosi ogni volta in modo diverso, sembra accumulare tutti questi conflitti: in ogni guerra, prima della distruzione di case, strade, città e persone, avviene un altro bombardamento, ben più subdolo, eppure radicale.
Il bombardamento della speranza.

Che, nella guerra in Yemen, sorella povera della più conosciuta e ugualmente tragica guerra siriana, acquista la precisione di quegli ordigni che mirano e distruggono proprio gli ospedali e le scuole.
Ospedali e scuole.
È facile da capire: se vai in un ospedale per scampare la morte e invece la trovi, se vai in una scuola per liberarti dalla violenza e invece ti assale, è facile capire che la prima a morire, qui, é proprio la Speranza.

Qualunque bandiera l’ha sempre capito, ha sempre lucidamente inteso che, per vincere, esiste una tecnica assai più permanente ed efficace che eliminare fisicamente ogni avversario. Ovvero togliergli qualunque velleità di ribellione, svuotarlo di ogni fuoco ardente, di ogni pensiero ampio, di ogni energia autonoma e vitale che possa emergere in lui, per evitare la comparsa di qualunque pericolosa consapevolezza, di qualunque possibilità di immaginare futuri diversi da quello, unico, imposto dall’alto.

Se bombardi gli ospedali e le scuole, fai proprio questo.
Riduci un popolo a moltitudini di mucchietti d’ossa in sacchetti di pelle che devono lottare, a otto mesi, per arrivare a pesare due chili, oppure a padri e madri annientati dal dolore perché devono sfamare famiglie di undici persone con un secchio di farina e uno d’acqua.
Lo riduci a gruppi di bambini che, appena estratti dalle macerie i parenti vittime di un bombardamento, guardano i caccia nemici sfrecciare sulle loro teste e non possono che desiderare di diventare anche loro piloti, da grandi, per guidare altri caccia, bombardare altre città, portare altro dolore, in un perverso gioco infinito. Appunto, senza speranza.

Questi precisi bombardamenti sui civili, quindi, con che coraggio possono essere definiti “danni collaterali” di una guerra? Sono essi stessi la Guerra.

Perché la pace può anche essere cieca, stendendo i suoi benefici su tutti senza fare alcuna differenza. Ma la guerra, – come ho capito ascoltando Roberto e altri come lui -, ci vede invece sempre benissimo.

Ah. Se vi chiedeste i motivi per cui dovremmo interessarci oggi di un conflitto così poco glamour e tanto dimenticato da non passare più neanche nei Tg, che ricade su popoli lontani che magari rischiano pure di diventare i nuovi profughi da cui sentirci infastiditi domani, ve ne do uno solo: molte bombe di quelle che sono cadute in Yemen, generando il dolore mirato di cui sopra, sono state prodotte da un paese che conosciamo bene. Il nostro.

Solo dal gennaio 2021, con un provvedimento di portata storica, è stata cancellata l’autorizzazione italiana a vendere “bombe e missili” alla coalizione saudita coinvolta nella guerra in Yemen.
Un passo avanti? Certo, ma non è stata ancora vietata la vendita di altre tipologie di armamenti, né si è fermata, in Italia, la produzione di componenti di bombe da assemblare nel Regno Unito.

I sette anni passati dall’inizio della “peggior crisi umanitaria del mondo”, a detta del Parlamento Europeo, non paiono ancora abbastanza nemmeno per noi.

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