Breve analisi di un discorso di guerra

La guerra.

In questi giorni non si parla d’altro. Perché è europea, perché è improvvisa, forse anche perché riguarda chi ha occhi e capelli chiari e usa auto come le nostre. Sicuramente perché è assurda, come tutte le guerre.
Parafrasando il celebre inizio di Anna Karenina: “tutti le situazioni di guerra si assomigliano, mentre ogni situazione di pace è pacifica a modo suo”, mi verrebbe da dire.

E prima di scatenare carri armati e cannoni, le armi che in ogni guerra si maneggiano sono altre: le parole.

Sull’uso delle parole nella propaganda di guerra (in questa guerra come in tante altre) vorrei quindi soffermarmi. So che non sarà un’esposizione esauriente e perfetta, ma lo scopo è un altro: aumentare anche solo di un minimo la consapevolezza verso la manipolazione altrui, contribuendo ad alzare la soglia di attenzione verso le parole lanciate nel mondo. Per imparare a schivarle meglio, proprio come fossero proiettili.

È il 24 febbraio, inizia l’invasione russa dell’Ucraina e Putin tranquillizza gli industriali russi con le parole di questo video. Le riporto:

“Quello che sta accadendo era l’ultima spiaggia, non ci hanno dato scelta per agire in modo differente. Hanno creato un tale rischio per la sicurezza che non avremmo potuto reagire diversamente. Ogni tentativo è fallito, fallito, a essere onesti sono anche sorpreso: non riuscivamo a procedere di un millimetro su ogni richiesta.”

V. Putin

Il primo elemento che salta all’occhio, leggendo bene queste frasi, è l’uso oppositivo dei pronomi: il “noi” contro il “loro”. Noi (sottinteso, buoni) che non riuscivamo ad andare avanti nelle trattative; loro (sottinteso, cattivi) che non ci hanno lasciato scelta. Creare opposizioni chiare, avere un nemico definito su cui indirizzare odio e frustrazione è tecnica antica, utile a qualunque ideologia per riunire una massa disgregata e darle un motivo semplice per agire.

“Quello che sta accadendo era l’ultima spiaggia”. Iniziamo ad analizzare queste frasi: se quello che accade era “l’ultima spiaggia”, si presuppone che ci siano state “altre spiagge” prima, e che queste non abbiano portato a esiti positivi. La presupposizione agisce in modo subdolo ma reale, presentando come già noto al destinatario un contenuto che in realtà non lo è, accompagnandolo ad accettare anche ciò che non sa.
“Non ci hanno dato scelta per agire in modo differente”: si lascia intendere di nuovo che possibilità di agire in maniera differente c’erano, ma adesso non ci sono più, e perché? Un altro contenuto contrabbandato implicitamente è che le alternative proposte sono venute da parte russa (=noi), mentre gli altri (=loro) non le hanno accettate portando quindi (noi) a “non poter agire in modo differente”: tutte le strade erano state insomma interrotte dal nemico, e ne rimaneva solo una possibile da percorrere. Per come si presenta, si dà per scontato che questo l’interlocutore lo sappia già, che sia un contenuto da tutti condiviso; così facendo, l’emittente scarica la responsabilità di quella che è solo una sua opinione sul suo interlocutore, che nemmeno se ne accorge.

Inoltre, è presente qui anche un’implicatura, meccanismo che serve a nascondere contenuti discutibili che, se ammessi chiaramente, verrebbero probabilmente rifiutati dall’interlocutore (o, perlomeno, sarebbero vagliati in modo critico): per esempio, che le alternative rimaste fossero tutte peggiori della guerra. Se Putin avesse detto chiaramente: “la guerra è la scelta migliore che abbiamo”, le sue parole sarebbero apparse ancor più discutibili. E qui serve aggiungere un’ulteriore precisazione: Putin dall’inizio delle ostilità non ha mai chiamato la guerra “guerra”, bensì l’ha definita “operazione speciale”. Perché? Perché le parole sono importanti, – lui (come tutti quelli che fanno pubblicità e politica) lo sa benissimo, – e sa che, finché non chiami qualcosa con il suo nome non ne riconosci appieno l’identità e la dignità: è come se non lo facessi esistere del tutto. Se non parli di guerra la guerra non c’è: può apparire paradossale, ma nei fatti non lo è per niente.

“Hanno creato un tale rischio per la sicurezza che non avremmo potuto reagire diversamente”: di nuovo i terrorizzanti “loro” che incombono e che agiscono. Se si fa caso ai verbi usati, poi, si può vedere come i nemici siano quelli che “creano” un rischio, che “non danno” scelta, agendo attivamente, mentre il “noi” minacciato ha una posizione subalterna, più passiva: infatti, tirata in mezzo dal nemico, tale parte non avrebbe potuto “reagire diversamente”, ma è costretta a rispondere perché sollecitata da una minaccia esterna.
La reazione verso un rischio esterno serve anch’essa a deresponsabilizzare chi parla, perché identifica il popolo (russo, in questo caso) con la parte minacciata, praticamente costretta a ribellarsi a una situazione critica voluta da altri e realizzatasi quasi in maniera ineluttabile.
Inoltre, tutta la frase, come quelle precedenti, è ammantato di vaghezza: di quale rischio si parla? La sicurezza in che modo è a rischio? In cosa consiste e come si mantiene tale sicurezza? Tutto è lasciato volutamente vago. Perché? Perché ogni interlocutore, ascoltando, può riempire questo vuoto col contenuto che preferisce e trovarsi con esso più facilmente d’accordo.

“Hanno creato un tale rischio per la sicurezza che non avremmo potuto reagire diversamente”. A indagare il senso della frase, rendendo esplicito ciò che è volutamente taciuto, ne verrebbe fuori un enunciato del tipo: “il rischio per la sicurezza a cui eravamo sottoposti era tanto grande che potevamo reagire solo con la guerra.” Quindi questo rischio esterno era più grave di una guerra? Esiste qualcosa del genere? Fosse stata la possibilità anche di un’altra guerra dell’Occidente contro la Russia, una guerra può eliminarne un’altra? Queste sono solo alcune suggestioni che emergono non appena si inizia a dissezionare un discorso.

Ogni tentativo è fallito, fallito, a essere onesti sono anche sorpreso: non riuscivamo a procedere di un millimetro su ogni richiesta.” Al di là dell’enfasi posta sulla ripetizione del termine “fallito”, come a rassicurare gli ascoltatori sui tentativi fatti, a far sentire la fatica di un accordo che non si è trovato (e che traspare anche in espressioni come “procedere di un millimetro”), è sempre dato per presupposto il fatto che questo accordo non si sia trovato per causa altrui. È l’altro, il nemico, che si è opposto: altrimenti Putin non direbbe che, “a esser onesti”, è “sorpreso” di un esito negativo dei tentativi. Anzi è “anche” sorpreso: e cos’altro? Amareggiato? Contento? Arrabbiato? Soddisfatto? Anche qui, chi ascolta può immaginare quel che meglio crede. Inoltre lui “a esser onesti” non si aspettava tutto ciò, ribadendo implicitamente il contenuto che finge sia ovvio per tutti: ovvero l’inaffidabilità del nemico contrapposta alla buona fede, quasi ingenua, del parlante.

Non c’era modo di procedere rispetto a ogni “richiesta”/ ogni “tentativo” è fallito: ancora non si specifica che genere di richieste fossero né che conseguenze comportassero.
Tutto, – l’uso della vaghezza come di impliciti di vario tipo – , mira quindi a convincere i destinatari, presumibilmente già simpatizzanti col parlante (= gli oligarchi) della ragionevolezza di un’azione militare in larga scala e, anzi, della necessità ineluttabile di essa. E lo si fa suggerendolo, ammiccandoci, accompagnando gli ascoltatori in modo nascosto verso le conclusioni che si vuole che essi traggano. Si fa anche leva su quello che viene definito “egocentric bias”: la tendenza della nostra mente che porta a credere maggiormente in conclusioni che abbiamo tratto da soli rispetto a quelle già presentate come preconfezionate dall’esterno.

Questo, unito al fatto che siamo costituzionalmente portati a seguire nei nostri processi mentali il “principio di economia” (cioè a preferire, fra tutte, la risposta più facile e il procedimento più rapido, considerando giusto in automatico il ragionamento che ci fa consumare meno energie di pensiero), genera quindi in chi ascolta tali discorsi “non neutri” la tendenza a un accomodamento dei contenuti, per avvicinarli a ciò che si ritiene più accettabile, e un abbassamento dell’attenzione critica verso ciò che ci viene proposto. Ottenendo, quindi, una massa più facilmente obbediente e manipolabile.

Due ultime e brevi considerazioni in proposito a tutto ciò: una precisazione e un ringraziamento.

La precisazione, – fondamentale! -, serve a ricordare che i meccanismi sopra accennati, e soprattutto le presupposizioni, si basano su delle “condizioni di felicità” che ne permettono la formulazione: ovvero, quando presupponiamo qualcosa, diamo per scontato l’assenso di chi ascolta sul suo contenuto e quindi rendiamo pensabile, condivisibile e pure autorizzabile quel contenuto stesso. E una volta che tale autorizzazione (seppur implicita) a quel contenuto discutibile è data, pure le azioni che ne conseguono ne vengono legittimate. Fossero pure attacchi improvvisi a un altro stato sovrano.

Il ringraziamento, invece, va al libro del professore di linguistica Edoardo Lombardi Vallauri, dal titolo “La lingua disonesta. Contenuti impliciti e strategie di persuasione” (Il Mulino, 2019) che ho letto con gusto e da cui ho tratto le nozioni utili per fare questa semplice (e certo non esauriente) analisi delle parole di Putin. Ricco di esempi concreti e dialoghi tratti dalla nostra quotidianità, tale saggio permette di avere un barlume di consapevolezza in più sulle strategie occulte, utilizzate soprattutto in politica e nel marketing, da cui siamo continuamente accerchiati e certo influenzati.
Con lo scopo ultimo di renderci più pronti ad alzare le nostre difese critiche in caso di necessità e a non considerare mai come acquisita, inscalfibile, la pratica democratica.

E, aggiungerei io, ci insegna pure a non credere necessaria nessuna guerra.

C’è sempre un’altra scelta possibile, infatti, per quanto ne dica Putin.

E dunque, in democrazia come nel libero mercato “occorre alzare il livello di consapevolezza della gente sulle cose che limitano il potere di scelta; fra queste cose, anche i fenomeni linguistici che abbiamo illustrati. Non si tratta di un’impresa impossibile, ma molto concretamente realizzabile; ed anche efficace, perché dove non si può più abusare liberamente dello strumento linguistico, manipolare diventa molto più difficile”. (E. Lombardi Vallauri, La lingua disonesta, Bologna, Il Mulino, 2019, p.258)

Per ulteriori approfondimenti vi consiglio di visitare il sito http://oppp.it/ (Osservatorio Permanente sulla Pubblicità e la Propaganda) ideato e diretto dal prof. Lombardi Vallauri e dai suoi alunni.

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