Il consumismo è nei dettagli.

Sono in una stazione, di primo mattino. Dovrò aspettare un po’ di tempo e mi viene la pazza idea di cercare un posto dove sedermi. Girello, osservo, collego, indago.
Guardando, rifletto: non so se “il diavolo sia nei dettagli”, infatti, ma credo che la filosofia si annidi spesso proprio lì, in quei ritagli concreti di mondo tanto sommessi quanto determinanti.

Ad esempio, mi colpiscono le panchine. O la loro assenza, per meglio dire.
Mi accorgo infatti, con stupore, che quella che fino a poco tempo fa era la sala d’attesa dei treni in stazione, con la biglietteria di lato e il grande tabellone degli orari di fronte, ha d’improvviso qualcosa di strano: da lì sono sparite le sedute.
Penso sia l’ennesimo strascico lasciato dal Covid (per una questione di spazi-distanze-difficoltà di pulizia-e così via) ma le idee mi si confondono di nuovo, di lì a poco.
Precisamente quando noto che, poco lontano, esiste ancora la sala d’aspetto riservata ai possessori dei biglietti con le tariffe più costose dei treni ad alta velocità: evidentemente, allora, qualcuno può ancora sedersi, ma quel qualcuno non sono io.

Diretta alla libreria della stazione, mi consolo allora con un cappuccino e con la gioia di stare rinvolta fra i libri. Anche nella libreria/caffè noto tanti tavolini, tavoloni e mensole ma…neanche una sedia o un misero sgabello.
Mi rassegno a stare in piedi; me ne sto appoggiata a un tavolone, quindi, sorseggiando il suddetto cappuccino e leggendo un libro acquistato in precedenza. Non male, in fondo.
A un certo punto, uno dei vigilanti dello spazio, insospettito, mi chiede però se quel libro sia mio: annuisco e lui si allontana, placato. La signora davanti a me, invece, è colpevole di leggere una rivista in vendita senza comprarla, e per questo è invitata in modo gentile ma deciso a rimetterla a posto.
Così, mentre guardo uccellini entrare nella libreria a cercare caldo e cibo come me, arriva finalmente il momento di partire e me ne vado.

Quello che ho visto mi è rimasto però negli occhi e sotto i piedi.

Mi torna in mente un passaggio di “Minima moralia” di Adorno, quando osserva la nostra società contemporanea e afferma che “[gli avventori della locanda] seduti su sedili scomodi, si sentono tenuti, dagli scontrini che si vedono presentare e dalla pressione morale delle riserve in attesa, a lasciare al più presto possibile il luogo che, per colmo d’ironia, viene designato ancora col nome di caffè. Quanto poi all’oste, con tutti i suoi collaboratori, non è più lui, ma un semplice impiegato.”

Nell’aforisma di Adorno i sedili ci sono ancora, seppur scomodi e quindi inadatti a lunghe sedute, mentre nella mia esperienza non ci sono più neppure quelli.
Il messaggio che arriva è comunque lo stesso: sedersi è un privilegio, un’attesa comoda pure.
Per lo meno nei luoghi pubblici del mondo occidentale contemporaneo, per lo meno quando l’individuo non può permettersi un ozio privato e improduttivo, ma è sempre e comunque spinto a mantenersi in movimento, col fine di girare e (si spera) consumare. Oppure è un privilegio che ti devi acquistare, comprando biglietti più costosi e di conseguenza il diritto a usufruire delle sezioni chiuse e separate delle sale d’aspetto deluxe.

Sedersi è un privilegio, l’attesa comoda lo è, il calore dentro i negozi pure, dicevamo.
Questo appare più strano dentro una stazione perché, pur essendo di per sé un luogo di passaggio, è pure un’area destinata alle attese, brevi o lunghe che siano.
Molti sono costretti ad aspettare, qui, ma devono farlo in piedi: così ci mettono meno a comprare, mangiare e andar via, lasciando spazio velocemente al prossimo consumatore. Ciò che compri da bere nell’attesa, mi viene da pensare, è in fondo “tempo liquido”, che ti consente di restare per qualche minuto fermo a un tavolino, o che ti dà almeno un motivo accettabile e accettato per restarci. Motivo che viene rafforzato se tu in quel negozio hai già comprato qualcosa, e quindi puoi godertelo, mentre l’usufrutto momentaneo, come quello della signora con la rivista, viene prontamente dissuaso.

Intendiamoci, è chiaro che non voglio dare la colpa a chi in questi luoghi lavora ed è costretto a comportarsi coi clienti come il sistema vuole, per non rischiare conseguenze in prima persona. Chi fa rispettare queste regole è allo stesso tempo parte e vittima del meccanismo che tutto schiaccia e che ci cambia piano piano le teste, facendoci sentire normali dei comportamenti, degli acquisti, dei modi di intendere l’attesa e il tempo che normali non lo sono affatto, ma che sono evidentemente un prodotto del nostro modo di vivere consumando (ed essendo consumati).

Un altro indizio di questi piccoli cambiamenti, quasi banale ma che poi banale non lo è, lo offre di nuovo Adorno quando fa riferimento a un ulteriore dettaglio della nostra contemporaneità: “la tecnicizzazione – almeno per ora – rende le mosse brutali e precise, e così anche gli uomini. Elimina ogni gesto di esitazione, ogni prudenza, ogni garbo.” Ci dice. “Così si disimpara a chiudere piano, con cautela eppur saldamente, una porta. Quelle delle auto e dei frigoriferi vanno sbattute con forza, altre hanno la tendenza a scattare da sole e inducono chi entra alla villania di non guardare dietro di sé, di non custodire l’interno che l’accoglie.”

Non c’è spazio quindi per l’attesa oziosa, nel consumismo odierno, né per l’esitazione o il movimento delicato: bisogna restare in piedi, mantenersi attivi, inseriti perennemente nel ciclo di produzione e consumo; né bisogna rapportarsi alle cose con modi garbati, ma il rapporto con le cose (e quindi, il rischio sarebbe, anche con le persone) dev’essere improntato alla nettezza, alla rigidità, fino ad arrivare alla sopraffazione.

Non piace l’esitazione al nostro mondo, forse perché può portare a quella conseguenza temibile che è la riflessione.
Non piace nemmeno la delicatezza, perché mostra che è possibile un’alternativa all’aggressività che spinge al predominio degli uni sugli altri, lontano da qualsiasi ricerca di bene comune.
Il margine di libertà che ci resta è ridotto e certe dinamiche macroscopiche sono difficilmente scardinabili, ma esserne consapevoli è già un primo passo, io credo.
Per imparare a guardare noi stessi e le nostre abitudini dall’esterno; per capire almeno quanto gli spazi che abitiamo ci influenzano e quanto di quello che facciamo lo vogliamo davvero.

Ma guarda cosa s’impara dalle panchine.

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