Credo che i prof facciano i prof non solo per la necessità intellettuale di trasmettere quello che sanno, ma anche, più carnalmente, per vincere la morte.

Questo tentano, in fondo, di fare, circondandosi ogni giorno di una variegata e rumorosa gioventù che li obbliga a stare al passo coi tempi; scegliendo di preoccuparsi per anni di desideri in fiore, piccole miserie e paure che sembrano giganti. Obbligandosi infine a restare consapevoli di sé eppure in mutamento costante, a ricercare ogni volta un punto di equilibrio fra le acquisite certezze proprie e la freschezza dei nuovi azzardi altrui.

Se insegni in una scuola superiore sei quindi attrezzato a fare i conti, volendolo o no, con amori tortuosi, progetti in costruzione, delusioni brucianti e amicizie eterne. Pure con sconforti improvvisi e rischi da correre, certo. Ma te li immagini sempre confinati nei limiti di una relazione o di una stanza, arginabili e in qualche modo recuperabili. Provvisori, come in fondo l’adolescenza stessa è. 

E quindi i rischi sì, li metti in conto.

Ma che una cada da un terrazzo o uno precipiti durante un volo, no. Non lo concepisci proprio.
Non è possibile morire a vent’anni, o meno. Dovrebbe essere vietato per legge. 

Perché io mi ritrovai, a suo tempo, come studentessa a guardare con terrore e ammirazione i nostri prof che cercavano di riportarci sani e salvi da una gita che si era trasformata in tragedia. E mi ritrovo, adesso, stavolta nei loro panni, a dover gestire con me stessa questa morte improvvisa e fredda, cercando giustificazioni vane: in uno sport che sapevi certamente rischioso o in incidenti che, neppure chi è allenato e preparato come te, sa di poter sempre evitare.

È inutile, però: saperlo non basta.

E tutte le volte che ti penso a sfrecciare nei tuoi cieli familiari, mi torna in mente quel piccolo episodio di anni fa, quando, durante il mio corso di scrittura nella tua bella classe seconda, mi prendesti in disparte, con la tua solita timidezza gentile, per farmi leggere una parte del tuo testo. Raccontava della meraviglia provata, insieme a tuo padre, in una notte d’estate, di fronte all’immensa bellezza del cielo stellato. Ti vergognavi a farmelo leggere, accompagnato dal sottofondo dei tuoi compagni che ridacchiavano, per colpa di quel maledetto imbarazzo che sempre ci prende di fronte a ciò che è bello, puro e prezioso, e che troppo spesso ci blocca e ci riduce.

Per fortuna però l’hai seguito, nonostante tutto, quel tuo animo puro e prezioso, e hai fatto bene a tentarli quei cieli e a non farti braccare dalla paura della grandezza dei desideri!

Ma noi ora siamo qui, senza respiro, come magari lo eri tu, emozionato, prima dell’ennesima sfida nel blu.
E non ci possiamo ancora credere che sia successo, come magari lo eri tu, quando ti sei accorto che il tuo aliante non rispondeva ormai come doveva.

Ti si è voluto, e ti si vuole bene, caro Giacomo. Lo sai.

E credo che i prof, alla fine, non siano più al sicuro di altri dalla morte facendo questo mestiere.

Forse, anzi, sono solo più esposti, più vulnerabili, per il loro cuore sparso su tutta questa gioventù.

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