“In un primo momento volevo dedicare questa conferenza tutta alla luna […]
Poi ho deciso che la luna andava lasciata tutta a Leopardi. Perché il miracolo di Leopardi è stato di togliere al linguaggio ogni peso, fino a farlo assomigliare alla luce lunare.”
(I. Calvino, Lezioni Americane)
Così Italo Calvino omaggiava il poeta di Recanati, riservandogli il monopolio della Luna. Seguendo l’omaggio di Calvino, nemmeno io voglio soffermarmi sulla malattia di Leopardi, sui suoi studi ossessivi, sulla sua solitudine o sul pessimismo che arriva a teorizzare, quanto, piuttosto, sul senso di pace e levità che le sue immagini e il suo linguaggio poetico riescono a posare su di noi.
Lasciamo prima parlare lui:
“Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna. E di lontan rivela
serena ogni montagna…”
(G. Leopardi, La sera del dì di festa)
La Luna, quando appare nei componimenti leopardiani, anche se occupa solo due versi ha la capacità di illuminare di sé tutto il resto. Come ogni squarcio di pace quotidiana lasciato intravedere nell’angoscia e nella consapevolezza del male del mondo, la sua luce dura solo pochi istanti, sufficienti però perché essa posi il proprio incanto su tutto ciò che la circonda, di cui rivela insieme la dura necessità e la momentanea lontananza.
La straordinaria attrazione che le opere leopardiane generano sta anche in questo: nella capacità del tormentato poeta di amare così tanto la vita in tutte le sue piccole sfaccettature da riuscire a farle risuonare in noi, facendocene intuire la verità.
Che sia la presenza degli uccellini, una voce femminile che canta da una finestra, la trasparenza dell’aria o la luce della Luna, sono queste le immagini leggere che il poeta associa all’oppressione del vivere: usando le parole di Calvino, si può dire che nelle liriche leopardiane “la dolcezza prevale sullo spavento, perché ciò che i versi comunicano attraverso la musica delle parole è sempre un senso di dolcezza, anche quando definiscono esperienze d’angoscia.”
Si potrebbe aggiungere che è proprio la dolcezza di ciò che è perso o irraggiungibile a rimarcare ancor più l’angosciosa presenza del reale e della fine, senza riscatto né speranza. Ma, d’altro canto, è proprio la contemplazione dei piccoli momenti di vita che ci circondano a fare in modo che l’uomo abbassi per un poco le sue difese, lasci che il mondo lo preceda e, così facendo, permetta a se stesso di conoscersi meglio godendo nel frattempo un respiro di pace.
La Luna, il passato con le sue malinconie, e quindi tutto ciò che è etereo e impalpabile, è l’incarnazione perfetta della felicità leopardiana che, se da un lato è per sua natura inafferrabile e quindi condanna all’infelicità, dall’altro è anche la base della grandezza umana e della capacità di ognuno di scegliere consapevolmente di amare la vita. Leopardi non è un banale pessimista o un piatto nichilista: infatti, anche se la vita e le passioni che contiene per lui sono illusorie ed effimere, non arriva mai a disprezzarle. Anzi.
Se so che al di là dell’inganno della vita non c’è altro, non odierò il riflesso della luce lunare sui campi, bensì l’amerò ancora di più.
Leopardi ci porta a dire che se noi fossimo immortali, non sapremmo cos’è l’amore, poiché ciò che ci circonda è bello e capace di diventare oggetto d’amore proprio perché, in modo per noi comprensibile e dolorosamente presente, è anch’esso mortale. Noi non ameremmo ciò che ci circonda, non ameremmo altri esseri umani se non sapessimo che loro, come noi, sono attraversati dalla stessa debolezza e dalla stessa nostra mortalità.
Essere parte della stessa sciagura, condividere la comune condizione umana, se ce ne ricordiamo, non può che affratellarci. Se riusciremo a cogliere la profonda verità in cui crede Leopardi, ovvero che uomini e cose sono per non essere più, non ci permetteremo di cancellare la minima briciola di bellezza e quiete intorno a noi, ma ci impegneremo piuttosto a farla splendere e risuonare, aggrappandoci ad essa come a un’ancora di salvezza.
Proprio nel suono che resta dentro di noi a festa finita, infatti, o nel riflesso della luce lunare sul mondo addormentato, potremo, così, ottenere la pace.