HELMER – Abbandonare il tuo focolare, tuo marito, i tuoi figli!
Non pensi a quello che dirà la gente?
NORA – Questo non basta a trattenermi dal farlo. So soltanto che non c’è altra soluzione
per me.
HELMER – Tutto questo è rivoltante! Così sei pronta a tradire i tuoi doveri più sacri?
NORA – Che intendi per sacri doveri?
HELMER – Ho bisogno di dirtelo? Quelli che hai verso tuo marito e i tuoi figli.
NORA – Ne ho altri, non meno sacri.
HELMER – Non è vero. Di quali doveri parli?
NORA – Dei doveri verso me stessa.
Nora non gioca più.
Piombati nel bel mezzo di Casa di bambola (1879), celeberrimo testo teatrale di Henrik Ibsen che amo molto e di cui vale sempre la pena parlare, assaggiamo subito il succo aspro del dramma: è proprio in questo passo, infatti, che emerge potente il cambiamento radicale di quella donna-lodoletta che ha finalmente preso coscienza di sé, e lo ha fatto in un modo così drastico e totale da non poter (né voler) tornare indietro.
Nora non gioca più.
E rinunciando a giocare alla madre e alla moglie, non rinuncia a una parte accessoria della sua vita di signora ottocentesca ma a tutto ciò che l’aveva costituita e significata per anni.
La sua è una rinuncia talmente grande, in grado di togliere così tanto il terreno sotto i piedi e di rivoltare la vita di chiunque, che non può essere scambiata (se non da un occhio in malafede) per il frutto di una facile leggerezza o di un momentaneo sconforto.
No, il suo è un sacrificio totale che può nascere solo come esito di un rovesciamento del proprio mondo. Da una dura presa di coscienza che, come un cazzotto nello stomaco, le fa vedere, per la prima volta in vita sua, le miserie e l’egoismo dell’uomo tanto amato, con cui ha condiviso i suoi anni, e insieme la futilità di tutto ciò in cui credeva, di un mondo di abitudini e valori che, si accorge, non le sono mai appartenuti davvero.
Anche se di animo generoso, di indole allegra, pronta a danzare e cantare per bendisporre gli altri, Nora è infatti il contrario di una donna frivola: tutta la profondità del suo sentire e la sua marcata comprensione delle situazioni emergono, a mio avviso, non solo e non tanto nella sua antica decisione di assumersi il segreto di un oneroso debito, all’insaputa del marito, così da pagargli le cure e salvargli la vita, quanto nell’incapacità di servirsi del dottor Rank, amico di famiglia e forse unico affetto sincero, sia nel circuirlo per ottenere un prestito, sia (a maggior ragione) nell’approfittarsi ulteriormente di lui, una volta che questo ha abbassato le difese, rivelandole il suo amore.
Seppure inizialmente tentata alla malizia, quando Nora intuisce la serietà del sentimento del dottore non può più fare finta di nulla e, quasi con rabbia, smette i panni della seduttrice che si era costretta a indossare, accettando la solitudine disperante della sua situazione. Come scritto nelle note al testo, infatti, “la frivolezza, nella donna non frivola, è segno di turbamento profondo, vicino alla disperazione” e rende ragione dello sconvolgimento inaspettato che la donna sente agire in sé, inarrestabile tanto da farla diventare un’altra.
O colei che, in fondo, era sempre stata, ma che non aveva ancora capito.
Lo ha capito tardi; per questo Nora pare punirsi, decidendo di lasciare per sempre anche i figli. Come se, dopo una vita passata a essere educata a suon di sensi di colpa, non potesse che ripetere questo meccanismo, ormai introiettato, per pagare il prezzo della sua libertà.
Nora non gioca più.
Nora, giovane donna benestante di una tranquilla famiglia borghese, ha rinunciato a giocare con i suoi bambini, abbandonando tutto ciò che le dava un senso, quando si è resa conto di essere stata considerata per troppo tempo, da parte del marito e dei suoi conoscenti, non solo come una bambina (al pari dei suoi figli) ma addirittura come una bambola, nel gioco delle rigide regole patriarcali di una società ottusa e ipocrita.
Nora ha imparato la necessità di quegli sconosciuti e sacri “doveri verso se stessa”, però, proprio da quel marito prevaricatore e da quella ottusa società.
Lo ha imparato a sue spese, tanto dall’atteggiamento aggressivo ed egoista del marito, in un primo momento, quando lui, scoperto il rischio a cui è stato sottoposto dall’antica imprudenza della moglie (compiuta però per salvargli la vita), si dimostra incapace di comprendere il senso delle azioni e la profondità delle motivazioni di Nora ma è invece pronto a disprezzarla e disposto a decidere, da solo, di toglierle l’affidamento dei figli; quanto dall’atteggiamento paternalistico e moralista dello stesso marito, in un secondo momento, quando lui, passato il pericolo, ammette che non è più il caso di “preoccuparsi di salvare i frantumi, le apparenze”, poiché tutto è tornato improvvisamente a posto, bello e perfetto. Tanto che Helmer arriva a consolare Nora così, in modo paternalistico al massimo: “Brava, cerca di calmarti, di riprenderti, mio piccolo uccellino spaurito. Riposa, io ho larghe ali per proteggerti. Com’è tranquillo e confortevole il nostro nido! Qui sei al riparo: la colomba si è salvata dall’avvoltoio. […] Tutto ritornerà ad essere come prima. Non avrò bisogno di ripeterti che ti ho perdonata. Te ne renderai conto da te. […] Non più moglie, ma figlia. E io ti vedo così, Nora, mia povera Nora smarrita. Non darti pensiero. Sii sempre sincera con me e io sarò la tua coscienza, e la tua volontà.”
Credo che nulla, allora come adesso, sia più distruttivo e mortificante di un atteggiamento del genere, in cui all’altro non viene concesso nemmeno il diritto di sbagliare, perché non ha il diritto di scegliere né di pensare: tutto di lui è assorbito nella grande entità salvatrice, (apparentemente) magnanima, intelligente in sommo grado e comprensiva del padre/marito che, fingendosi martire, non fa che imporre con una violenza subdola e tagliente la propria volontà sull’altro, annientandolo. Usando il ricatto dei sensi di colpa, tipico di ogni padre, e minimizzando le grandi tensioni emotive e ideali di Nora, Helmer vorrebbe ricondurre ciò che è ormai esploso con violenza e con passione nella scatolina dov’era prima, nella piccola, gestibile, casetta delle bambole.
Lì però la statura morale di Nora, adesso, non entra più.
Nora non gioca più.
E diventa l’emblema di ogni coraggiosa lotta contro l’inautenticità dei rapporti, contro lo squilibrio che mina (ora come allora) legami spesso fondati su una scarsa conoscenza dell’altro, su più o meno velati giochi di potere, ritmi di abitudini e gabbie di perbenismo; diventa tutto questo ancor più e ancor prima che un’eroina di una battaglia solo femminista. A mio avviso Nora fa sentire forte il suo grido e offre una possibilità di riscatto non solo a una metà del mondo, quello femminile (da sempre maggiormente in balia del dominio maschile, costretta da sempre a dimostrare di valere tanto quanto il suo corrispettivo maschile), ma a tutto l’universo umano, perché la sua presa di coscienza e il suo dolore non valgono solo “in quanto femminili” ma in quanto umani. E, quindi, universali.
La tentazione di rimanere bambini, infatti, di restare dei “minorenni a vita”, protetti e gestiti da qualcun altro, è comoda per tutti e compare sempre più forte, oggi, poiché l’invecchiamento è sempre meno sinonimo di una crescente consapevolezza e di un più saldo coraggio nel perseguire una vita autentica, libera e rispondente davvero alla propria volontà.
Già Kant, nel suo Che cos’è l’Illuminismo? (1783) l’aveva ben chiaro, quando diceva: “Pigrizia e viltà sono le cause per le quali tanta parte degli esseri umani, dopo che la natura li ha da lungo tempo liberati dall’altrui guida, rimangono tuttavia volentieri minorenni a vita; e per questo riesce tanto facile ad altri erigersi a loro tutori. È così comodo essere minorenni! Se ho un libro che ha intelletto per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che valuta la dieta per me, ecc., non ho certo bisogno di sforzarmi da me. Non ho bisogno di pensare, purché sia in grado di pagare: altri si assumeranno questa fastidiosa occupazione al mio posto. […] Quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza su di loro […] dopo averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e aver accuratamente impedito che queste placide creature osassero muovere un passo fuori dal girello da bambini in cui le hanno ingabbiate, in un secondo tempo descrivono a esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole. Ora, tale pericolo non è poi così grande, poiché, con qualche caduta, essi alla fine imparerebbero a camminare: ma un esempio di questo tipo rende tuttavia timorosi e, di solito, distoglie da ogni ulteriore tentativo.”
Di sicuro ogni processo di crescita, liberazione e sconvolgimento delle proprie certezze presuppone infatti una quota di pericolo, di rivoluzione e di dolore, porta a rinunce inevitabili (che Nora dolorosamente sperimenta), ma apre al contempo orizzonti mai visti e prospettive che sarebbero state impensabili, per l’individuo in questione, fino a quel momento.
I due coniugi ne sono testimonianza: se Nora infatti è cresciuta convinta di essere un’incapace, vivendo come giusto, normale, il presupposto di dover soffocare le sue aspirazioni più autentiche, nascondendo la parte migliore di sé per farsi voler bene dagli altri, per poi scoprirsi tutto d’un colpo a vivere di fianco a uno sconosciuto in una vita che non voleva, così Helmer, che è vissuto convinto di aver tutto sotto controllo, di poter prevedere l’agire suo e degli altri, conoscendosi già e aggiustandosi in una quieta comodità, si è ritrovato all’improvviso a non sapere più niente, a veder rivelata d’un botto la fragilità di ogni sua costruzione e la fatuità della sua consapevolezza.
Chi credeva di non sapere, quindi, alla fine sa; e chi era convinto già di conoscersi, appare come colui che non sa niente.
Nora non gioca più.
Soffre, deve rinunciare a molto, ma molto di più guadagna.
Perché guadagna se stessa e, quindi, vince.