La prima volta che l’ho abbracciato saranno stati due mesi che ci conoscevamo. Capello biondo sparso, occhio intimorito ma indagatore, la passione per l’azzurro. E le bici, ovvio.
Non è il massimo iniziare a conoscere il tuo alunno, in prima superiore, al funerale di sua madre.
Mentre suo padre, dalle movenze placide e l’apparenza ascetica, faceva luce col sorriso sotto la barba bianca, e le sorelle si reggevano a vicenda sul medesimo sgomento, – una troppo consapevole e l’altra troppo poco della grandezza di quanto accaduto – , quel figlio di mezzo sembrava fosse lì per caso.
Eppure, mi vide e mi venne a cercare.
L’imbarazzo e il dolore non sembravano in quel mentre appartenergli, mentre scostava placido ma deciso le persone innanzi a me, a noi, per farsi strada, per venirmi ad abbracciare. Di quel gesto poco originale mi colpì la precisione dell’intento: quella barra dritta con cui aveva individuato l’obiettivo, perso fra le ondate di persone intorno, e tramite cui aveva espresso il suo volere, atto tanto difficile per lui quanto il lasciarsi andare fra le braccia di un’estranea. Ma molto di tutto ciò, allora, lo dovevo ancora sapere.
Non una lacrima, insomma, non un sorriso: quell’inizio fu una stretta necessaria.
Passano gli anni, fra gite, vita in classe e vita fuori.
Lui resta di poche parole e di sguardi in tralice: per molto tempo ho pensato che il pavimento fosse molto più interessante di me. Ma nel tempo intravedo di più i sorrisi sepolti, che ogni tanto s’affacciano, la voglia di essere lì, quel vetro offuscato che ogni tanto traspare in un guizzo lucido d’ironia.
Ci cuciamo un po’ fra noi, a suon di silenzi (suoi) e chiacchiere (mie); a suon di occhiate e battute, di paure e prime soddisfazioni, ma dilazionate. Qualche foto delle vacanze, le prese in giro sulle bici troppo spesso fracassate, alternate ai cellulari appena comprati e già ammaccati. Una visita a casa, il rimando a qualcosa di studiato che davo per perso e che invece, inaspettatamente, si rivela incastrato nella mente e vivo all’improvviso. La simpatia malcelata per quella ragazza sorda piena di brio e di capelli, di un paio d’anni più grande, che sembra capirlo e che finalmente lo smuove, come solo il desiderio riesce. I compagni accoglienti e scemi, che uno spazio, anche per lui che non lo cerca, lo sanno trovare. Che dopo quattro anni pensano ancora che quando quel giovane si astrae, sia solo pigro. Lo prendo in giro, li prendo in giro, mi scappa da ridere, ma va bene così. Perché magari hanno ragione: è proprio un mistero questo giovane che mi cresce davanti, negli occhi e fra le mani, che credo di conoscere finché non lo capisco più, e che un giorno è presente, acuto e vivo, e l’altro chissà su quali lidi disperso, estraneo, irraggiungibile.
Eppure il tempo scorre e con esso il salto a ostacoli delle lezioni, delle verifiche, delle terribili interrogazioni di fronte a occhi che l’osservano e lo paralizzano, delle visite di gruppo e dei laboratori. Oltre che del tremendo Covid, che tutte le relazioni e l’agio che eri riuscita, insieme agli altri, a metter su se lo risucchia d’un colpo, chiudendo il tuo alunno, – come tutti – , in una camera accessibile solo da uno schermo, – come tutti.
Ma lui come tutti non è e, a differenza di molti, ci si affeziona a quell’isolamento, richiamato dalle sirene del letto e dei videogames, della solitudine e dell’assenza che già tanto lo incantano, da sempre.
E tirarlo fuori come dentro un secchio da quel pozzo che per un po’ sembrava infinito, tirarlo su una risata alla volta, una videochiamata alla volta, una promessa alla volta, una speranza alla volta, almeno finché uscimmo a riveder le aule.
Ma l’aula non basta. Dopo, viene il tempo lungo servito per sconfiggere la resa, per convincerlo a tornare a scuola il più frequentemente possibile; perché era comodo restare a casa, specialmente se nessuno spinge, era comodo lasciarsi andare: tanto non conto niente, tanto che differenza fa? Sentirlo senza saperlo dire, sentirlo e rischiare di affogarci dentro. Perché senti tu per lui, sotto quegli occhi azzurri e quel fisico già adulto, tutta la falda smossa da pensieri ed emozioni che giace dentro un antro buio e non trova uscita.
Cinque anni lunghi e lenti passati come un fulmine. Cinque anni ed ecco la maturità.
La maturità. Ovvero la preparazione delle prove, l’ansia che si vede e c’è, la voglia di finire, le paure in sincrono con i compagni e le compagne, eppure ognuno con un timer tutto suo. Il far finta di nulla e il vedere tutto, i messaggi all’improvviso per esser rincuorato, l’impegno preso e che, sostengo, va portato fino in fondo.
Ogni prova ha il suo passaggio. E menomale.
Vale e deve dimostrarlo. Non agli altri, non ai docenti, interni e esterni, non alla famiglia, ma a sé. Io ci credo, ci ho sempre creduto, ma vacillo.
In ogni verifica, in ogni prova resta infatti una parte di quel mistero originario: dove sarà quel giorno? Insieme a noi, in una classe brulicante e afosa, o nel suo mondo, dove forse tutto è sensato e immobile?
Non lo so, non lo posso sapere. Sono costretta al rischio; spero contro ogni speranza.
Alla prima prova, una volta letto il testo, vedo la sua penna sul foglio. Se parte, è fatta.
E infatti è fatta, e pure bene. La rete della tensione lo tiene stretto insieme agli altri, ma lo sguardo è sicuro, la mano corre, le cose le sa.
Anche la seconda prova, quest’anno di scultura, incredibilmente va. La sua lentezza atavica è per una volta accelerata, e addirittura quattro tavole e un bozzetto nascono dalle sue mani e da quelle dei prof che lo supportano.
Il peggio, però, è l’orale.
La presentazione interdisciplinare è bella, lo sa. E le volte che l’ha ripassata sono tante, lo sa. Ma il gruppo di professori, in parte sconosciuti, che ha di fronte è reale, e può essere un nemico. Lo so.
Io posso far tutto ma non posso fare niente. Solo osservarlo mentre inizia a parlare davanti a docenti che non hanno quasi mai sentito la sua voce, che siano docenti esterni o che lo conoscano da anni. Vederlo mentre scorre le slide, risponde alle loro domande sui vari argomenti, sorride.
Il tema del suo orale è il sogno, e quando gli chiedono chi sogna di solito: “mia mamma”, dice. E la platea già si gela. Ma lui è sereno. Sudato, sempre più sudato, ma sereno. Incredibile.
Fino alla fine, quando, dopo alcune domande su di sé fatte dai prof esterni, ognuna delle quali mi fa perdere un anno di vita; alla fine, dicevo, del suo excursus sul sogno di Alice, la prof di inglese d’un tratto gli chiede: “qual è il tuo personaggio preferito del racconto?” Silenzio.
Sapevo sarebbe arrivato. Silenzio. Ci devo restare, non posso parlare. E’ la vita sua, la prova sua, deve fare i conti con sé. Silenzio. Decido di abitare, soffrendo, quel silenzio, mentre altri prof rispondono per lui.
– “Lo Stregatto”, dice. Ha parlato, posso respirare. Ora però basta.
– “E perché?” Chiede invece di nuovo quella prof, più sprovveduta o solo più coraggiosa di me.
Adesso è la fine, mi dico. E’ troppo, è andata.
– “Perché è come me.” Silenzio. “A volte scompare, e a volte c’è.”
E allora ci siamo anche io e una mia collega, lì, che ci guardiamo d’istinto. Abbiamo le lacrime agli occhi, e non siamo le sole. Anche il più duro dei prof non può far finta di niente. Tutti gli occhi sono su questo ragazzo biondo, che sembra lì per caso, con i suoi occhi azzurri e una maglietta bianca ormai trasparente dal sudore ma con lo sguardo per una volta alto. Seguono dieci secondi di silenzio pieno, che tutto avvolge e che vale cinque anni interi.
E poi, certo, applausi, prove corrette, regali, babbo, sorella, festeggiamenti, compagni, prof sparsi, foto. Ma non m’importa.
Perché questo ragazzo che di nuovo ora mi abbraccia, stordito e radioso, alla fine del suo incredibile esame di stato, non è più quello di cinque anni fa. No, non chiacchiera a dirotto, nè mai lo farà, non mi dice chissà che frase da ricordare, nè vuole con me mille foto da condividere. Ma mi abbraccia e mi guarda, e fra di noi ci sono tutte quelle parole non dette, quelle emozioni inespresse e quegli anni di affanni, risate, barlumi e gradini, anche se lui non lo sa.
Ma io sì: non è stato tutto vano.
Anzi, nello sguardo timido e divertito di questo giovane ormai maturo sono sicura di vederla lampeggiare, ecco che c’è: è una fierezza nuova, che so, sento, lo accompagnerà ancora, nei momenti chiari e nei momenti bui della sua vita.
Non sarà tutto perfetto, non andrà tutto bene, ma quella luce c’è: io l’ho vista.
Ho fatto il mio lavoro, ed è bellissimo.